Iron Maiden. Un nome che fa tremare i polsi, un'icona conosciuta e rispettata dentro e fuori gli orizzonti dell'hard'n'heavy: gli Iron Maiden sono spesso accostati all'heavy metal come incarnazione stessa del genere, e anche se ciò è dovuto al pressapochismo di chi ignora l'esistenza di centinaia di altre band, non bisogna sottovalutare questa semplice equazione. Bisogna essere fieri del prestigio che gli Iron Maiden rivestono praticamente in ogni angolo del globo: le t-shirt di Eddie e gli album che hanno dettato la storia di un genere hanno reso possibile il riconoscimento umano di band metal per antonomasia, ancor più di chi il genere lo ha plasmato o di chi lo ha portato a conseguenze sonore estreme. La melodia eccitante e i volti rassicuranti di Bruce Dickinson, Steve Harris e compagni sono oggi la sintesi perfetta dello spettacolo heavy metal, ed è affascinante pensare alla Vergine di Ferro come fenomeno di punta dell'intero filone ai tempi delle sue origini, quando il nome Iron Maiden suscitava sussulti di rispetto e ammirazione nei cuori degli headbangers. E' tuttora un mistero come una band heavy metal abbia saputo raggiungere una simile popolarità, forte di stima e rispetto indiscutibibili tra le leggende immortali della musica. Tutto inizia nell'Inghilterra di fine anni settanta, quando il fenomeno punk pareva aver fatto le scarpe all'heavy metal reso grande da Black Sabbath e Judas Priest. Poi, arrivarono loro. Rifiutarono di suonare punk e abbassare la testa, i Maiden. Adolescenti ma già con le idee chiare, che attraverso potenti riff, assoli melodici ed heavy metal energico ammutolirono i detrattori e riportarono in auge il proprio genere, scatenando delle emozioni indimenticabili ancora oggi. L'escalation fu irreversibile, la mascotte Eddie divenne un mito e dopo i primi due album iniziò una galoppata fantastica verso la storia: pagine monumentali di musica bella e potente, intrisa di melodia e tecnica sublime. L'enorme merito degli Iron Maiden è quello di aver afferrato l'heavy metal per mano ed averlo riportato a livelli stellari, impregnandolo di una dinamicità musicale e attitudinale nuova e sferzante, capace di ammodernare il già luminoso sentiero tracciato dai Judas Priest. Un'eredità non da poco. Gli Iron Maiden nascono a Londra nel 1975, fondati dal bassista Steve Harris, che per il nome prese spunto dal film 'La maschera di ferro', in cui compare un attrezzo di tortura chiamato appunto vergine di ferro. Inizialmente alla voce c'è Paul Day, ma prima del debutto discografico l'act cambia diverse formazioni; pur influenzati dal punk, i ragazzi di Steve Harris suonavano già un heavy forte e tecnico, trovando dunque fatica a emergere in un panorama sommerso dal fenomeno punk. Gli Iron Maiden colsero l'occasione della vita quando iniziarono ad esibirsi al Ruskin Arms, uno dei pochi locali dove si suonava heavy metal. Qui fece una delle sue prime apparizioni Eddie, il mostro che sarebbe diventato la mascotte della band: una testa di zombie inizialmente dipinta che in seguito troverà forma in giganteschi e pittoreschi pupazzoni. Con gli anni, alla voce arrivò Paul di Anno, e la band compose un primo demo e canzoni come 'Prowler', 'Sanctuary' e 'Iron Maiden'. Questo demo, intitolato 'The Soundhouse Tape', destò enorme successo nell'unica discoteca metal di Londra, il Soundhouse appunto: gli headbangers locali chiedevano frequentemente la riproposizione di quel nastro scoppiettante, e l'attenzione dei discografici si spostò di colpo su quei ragazzi tanto determinati ed interessanti.
Messi sotto contratto dalla EMI, i giovani metallers si chiudono in studio per rifinire le proprie canzoni e completarle con nuove tracce. Nel 1980 esce finalmente il primo lavoro della Vergine di Ferro, intitolato proprio 'Iron Maiden', che riscuote subito buon successo. L'album è caratterizzato da un suono molto grezzo e fresco, soprattutto nei timbri utilizzati dalle chitarre. Benché il disco abbia tutte le limitazioni e le logiche inesperienze di un album di esordio, rappresenta comunque un'importante tappa della nascente New Wave of British Heavy Metal. Le sue melodie rocciose e i riff mozzafiato sono da pelle d'oca, e rendono alla grande l'idea di quello che i Maiden erano all'epoca: portatori di un heavy metal esplosivo, vivace, robusto ma con quella spruzzata di punk che lo rendeva ancora più tosto, veloce, innovativoì, nonostante l'ancora palese influenza di matrice hardrock. Di fianco a pezzi energici, diretti e dal riff memorabile come l'opener track 'Prowler' e la conclusiva 'Iron Maiden', autentico inno della band, figurava un brano intricato, lunghissimo e funambolico come 'Phantom of the Opera'. Il tutto era arricchito dalle esaltanti 'Sanctuary' e 'Charlotte The Harlot', dure e intrise di un vivace rockmetal. Presenti anche due ballad dolcissime, per non farsi mancare nulla: 'Remember Tomorrow', dotata però di crescendo finale roboante, e 'Strange World', più struggente ed onirica. Il responso fu strepitoso, e lo stesso Paul Di Anno ne conserva un giudizio entusiasta: 'E' stato il miglior disco che abbia mai fatto con i Maiden, senza dubbio. Personalmente non penso che il secondo album abbia rappresentato un miglioramento: la gente va avanti a parlare della produzione, ma io nemmeno. Tutto ciò che senti é la band che suona, io che canto e quanto sono grandiosi i pezzi. Sono convinto che la vena punk degli Iron Maiden in quel disco fosse al top: le canzoni erano grezze, ruvide, violente, e amo esaltarne questo aspetto. Eravamo completamente diversi da tutto il resto, e il nostro primo album lo confermava; i nostri fans, allora come oggi, avevano un'attitudine diversa da tutti gli altri, ci seguivano ovunque. Era un maledettissimo disco punk metal'. Nei loro primi tour gli Iron Maiden già entusiasmavano le folle: viaggiarono a lungo, accompagnando Judas Priest e Kiss e facendosi presto conoscere ovunque, grazie alla voce sporca e l'attitudine grezza del singer Paul Di Anno. Di Anno era un ribelle dalla forte personalità, la voce ideale per gli Iron Maiden dell'epoca; tuttavia a volte esagerava con le sue follie, soprattutto alcooliche, e ciò portò in seno al gruppo qualche frizione. Tra altri mutamenti di formazione, si arrivò nel 1981 alla pubblicazione di 'Killers', di ancor miglior fatturato tecnico e produttivo. Nonostante la presenza di qualche brano non trascendentale, il disco viaggia spedito trainato dalla titletrack e dalla potente 'Wratchild'. In quel periodo gli Iron Maiden andarono incontro a crescenti dissidi con Di Anno. Harris lo accusò di rovinare la propria voce e la propria vita con l'abuso di alcool, droghe e fumo, e dopo vari scontri lo licenziò.

Gli Iron Maiden si mossero alla ricerca del nuovo vocalist, e la scelta fu fatta assistendo alla strepitosa esibizione concessa dal cantante dei Samson, Bruce Dickinson. Una autentica furia sul palco: elettrico, spettacolare, dotato di una forza vocale pazzesca. Dickinson entrò negli Iron Maiden e presto il gruppo pubblicò 'The Number Of The Beast', disco caratterizzato da nuovi elementi sonori power metal oriented: un sound più ricco e vario, impreziosito dalla grande tecnica vocale di Bruce. È un lavoro dal sound potente e meno irruento rispetto ai precedenti album, ma che esibisce la creatività di Steve Harris e di tutta la band. Trame strutturali intricate, potenti ed ultra melodiche sezioni strumentali che si divincolano tra riff maestosi e refrain travolgenti, una coordinazione d'esecuzione tra i vari membri assolutamente ottima, una grande intesa col nuovo cantante: Dickinson mostra in tutte le tracce la pienezza e la costanza della sua voce invidiabile. Uno dei più grandi album della storia del metal: ne è un chiaro esempio la titletrack, col suo riff leggendario ed il suo incedere ora misterioso e poi di colpo travolgente, innervato dalla prestazione monstre del singer e da uno degli innumerevoli assoli cristallini della coppia d'asce composta da Smith e Murray. A fare rumore è la ripetizione nel ritornello del presunto numero della Bestia: anche se il brano non fa che parlare di un incubo fatto da Steve Harris, quel presunto riferimento satanico muove la schiera protestante dei perbenisti e dei bigotti moralizzatori cattolici, come ricorda Steve Harris: 'Non abbiamo mai composto canzoni romantiche. Tutti scrivono di quanto amano la propria 'piccola', e tutta quella roba lì. Scrivono di quanto sia dura la vita on the road, ed è vero, di quanto si sentano soli, che può essere vero allo stesso modo; a loro manca il loro amore, con cui vorrebbero tanto stare, e tutto il resto. Ma trovo queste cose piuttosto noiose. Non penso di non possedere in me un pò di romanticismo, ma semplicemente non mi interessa scrivere di queste cose. A differenza di altre band, a noi non interessa neanche focalizzare i versi del gruppo sulle esperienze personali. Un'altra tematica su cui molti scrivono é l'essere macho e conquistare molte ragazze, ma tutto quello che i Maiden hanno scritto su questo genere di cose è Charlotte the Harlot ed Acacia Avenue, che sono pezzi molto diretti. E' un modo per dire alle altre band che siamo in grado di andare oltre quelle cose. Ed é piuttosto divertente! In molti dei nostri brani c'é un umorismo che spesso non viene colto, o viene mal interpretato. Questo é vero sopratutto in The Number of The Beast, che ha un soggetto che molti fautori della persuasione biblica hanno preso troppo seriament. Abbiamo incontrato dei maniaci o dei fanatici religiosi, nell'America del Sud qualche idiota urlava 'brucia all'inferno, brucia all'inferno' mentre la band scendeva dal palco. Se solo si fossero soffermati sui testi del disco, avrebbero avutoben pochi motivi per accusare la band. E' stato pazzesco! Ovviamente nessuno li aveva letti. Ancora oggi scoppiamo a ridere quando ci accusano di satanismo'. L'effetto ottenuto dai censori, infatti, fu proprio l'opposto di quello voluto, perchè il clamore destato da quel ritornello blasfemo non fa che accrescere il fascino degli Iron Maiden e accrescere l'aurea maligna dell'heavy metal in generale, nonostante il brano derideva i rituali satanici invece di appoggiarli. Altro pezzo colossale del platter è la marziale 'Hallowed Be Thy Name', potentissima e solenne, ancora impreziosita de evoluzioni tecniche e melodiche da capogiro, rallentamenti e accelerazioni, stacchi maestosi, una sezione strumentale intricata di rara bellezza. La scaletta è ricca di canzoni assolutamente perfette, ricche di intuizioni melodiche pulite ed irripetibili, come 'Acacia Avenue', seguito lirico e tematico della vecchia 'Charlotte The Harlot', oppure 'The Prisoner', entrambi pezzi caratterizzati da fantastici guitar solos. Steve Harris e Nico McBrain reggono una sezione ritmica mai banale e sempre perfetta, mentre le chitarre di Adrian Smith e Dave Murray si rendono autrici di pura energia che cola piacevole sulle teste degli headbangers in delirio. Tra le hit assolute spicca un inno come 'Run To The Hills', ancora oggi uno dei pezzi più amati dai fans, con l'ennesimo assolo da brividi e le incalzanti parti vocali: un classico basilare in ogni live set.

I Maiden hanno fatto il botto: le lauree in storia e letteratura di Dickinson permettono al combo inglese di spostare l'obbiettivo su tematiche interessanti e assolutamente colte, riferite ad avvenimenti storici, poemi, romanzi e celebri monumenti letterari. Racconta Rob Halford, leader dei Judas Priest: 'Dopo la nwobhm, quel disco dimostrò veramente che gli Iron Maiden erano diventati una potenza mondiale, globale. Il titolo è magnifico, e mostra un altro lato del metal che stava uscendo dal Regno unito. E’ importantissimo per definire il movimento britannico dell’epoca. Ci sono delle risorse importanti nel metal, come in tanta parte della musica, e questa era abbastanza importante’. E' con questo disco che gli Iron Maiden si fanno definitivamente alfieri e portabandiera delle milizie dell'heavy metal. Un album del valore tecnico di 'The Number Of The Beast' mette ulteriormente in primo piano la maestria degli Iron Maiden nell'arrangiare emozionanti fraseggi di chitarra assieme alle vocals teatrali; i due chitarristi attaccano a briglie sciolte, martellando l'ascoltatore con sezioni intricate sulle quali inserire dei complementi armonici ed una raffica di complessi giri melodici. Le veloci progressioni di chitarra all'unisono diventano l'inconfondibile tratto distintivo della band, raddoppiati dalla potente sezione ritmica guidata dall'eccezionale basso di Steve Harris. Come sempre e più di prima, i concerti degli Iron Maiden erano spettacoli pirotecnici travolgenti, vortici di luci, colori e suoni, fuochi e sceneggiature teatrali grandiose. E poi, con quel campione del palco di Bruce Dickinson, maestro nel brillare come un gigante, il successo era scontato. Bruce coinvolge il pubblico, sa elettrizzarlo solo con un gesto. Tra un tour e l'altro, senza nemmeno preoccuparsi delle ridicole accuse di satanismo giunte dai soliti perbenisti, i Maiden si presero un periodo di pausa meritata alle Bahamas, nel quale ricaricare le pile e porre le basi per una pagina tutta nuova nell'epopea della band.
In questo periodo furono gettate le fondamenta di 'Piece Of Mind', pubblicato nel 1983 e caratterizzato da un sound meno massiccio e con brani più melodici e complessi, bagnati da una certa influenza progressive-rock. Laureato in storia e letteratura, Bruce Dickinson componeva brani colti e di matrice storica, come ad esempio 'Flight Of The Icarus', brillando dunque anche in fase di produzione oltre che in studio e nei soliti, giganteschi, concerti. L'album ebbe molto successo, e la trascinante 'The Trooper' entrò presto nella top gallery della band. L'anno seguente la band ribadì il suo stato di grazia con l'ancor più memorabile 'Powerslave', un ritorno a suoni più duri e con la stessa attenzione storica che Dickinson mantenne nella composizione. Il trio d'asce composto da Smith, Murray ed Harris conferiva una dimensione stratificata al suono già vario ed esplosivo del five pieces, innervato da pure scariche elettriche di energia e stratificate architetture strumentali; e mentre Dickinson correva da una parte all'altra del palco come un indemoniato, dietro le pelli il sornione McBrain teneva il timone di una band in forma stellare. 'Powerslave' porta a compimento l'evoluzione della band, che si era manifestata palese nei due dischi precedenti e che ora trova la sua consacrazione assoluta, con un album mastoso in cui spiccano le melodie brillanti delle due chitarre gemelle ed i loro virtuosismi intricati. Il successo degli Iron Maiden cresceva in modo implacabile, e la band si tuffò a capofitto in un tour enorme da un capo all'altro del globo. Tutto l'album, a cominciare dalla copertina, è ispirato alla civiltà egizia e ad avvenimenti storici: esso contiene episodi magistrali come 'Two Minutes To Midnight', una traccia dinamica di stampo hardrock trainata da un riff azzeccato e inconfondibile, oppure la travolgente 'Aces High', pezzo potente e tambureggiante dal ritornello melodico e dotato di un attacco frontale trascinante posto in incipit. 'Aces High' apre ancora oggi ogni concerto della Vergine di Ferro. L'oscura titletrack 'Powerslave' riassume bene il notevole spessore tecnico e melodico della band, rafforzato dal taglio progressive di 'Rime Of The Ancient Mariner', pezzo di estrazione letteraria ispirato da un romanzo di Coleridge. Grazie a questa uscita gli Iron Maiden godevano ormai di un seguito di fans considerevole ed affezionato; strepitoso fu il lungo tour di supporto all'album, corredato dal virtuosismo tecnico dei musicisti così come dagli spettacolari effetti scenici: da leggenda la scenografia egizia con Eddie mummificato. Bruce Dickinson era il sicuro ammiraglio di una truppa d'assalto perfetta e spettacolare, con le sue corse sfrenate sul palco, la sua voce imponente e la sua goliardia travolgente: gli Iron Maiden sul tetto del mondo.
Nel 1986, ben riposati e rigenerati, gli Iron Maiden tornarono con 'Somewhere In Time', sempre fedele ai recenti stili influenzati dal progressive per quanto concerne la struttura elaborata dei brani, ma parzialmente contaminati da suoni sintetizzati ed effetti elettronici. Spiccano pezzi come 'Caught Somewhere In Time', l'emozionante 'Wasted Years', 'Stranger in A Strange Land'. Ancora una volta in primo piano erano le melodie di chitarra di Adrian Smith e Dave Murray: le evoluzioni delle due asce, cristalline e rapide all'unisono, sono un marchio di fabbrica inconfondibile del Maiden-sound, assieme alle celebri galoppate, e qualche synth in più non potè in ogni caso intaccare la splendida riuscita della nuove release. Le esibizioni del gruppo erano come al solito stellari, dense di luci ed effetti pirotecnici incredibili, che accatturavano folle impressionanti. L'album diventa subito un altro superclassico del gruppo, anche se non mancarono fans che storsero il naso di fronte ad un'innovazione come quella delle tastiere, accettata con qualche remora. Dopo due anni di concerti, nel 1988 uscì 'Seventh Son Of A Seventh Son', caratterizzato da uno stile ancora più melodico e orientato verso tecnicismi alla soglia del progressive metal, per perizia tecnica e taglio melodico; pezzi trainanti dell'album erano 'Infinite Dream', 'Can I Play With Madness', 'The Evil That Man Do' e 'The Clairvoyant', un capolavoro di musicalità e precisione stilistica. Solenne la title track, altrettanto esaltante ed intricata 'Deja Vu'. L'album era meno aggressivo e permeato da una certa vena epica e malinconica, e vede un Bruce Dickinson più aspro al microfono.
Molto meno successo ebbe, nel 1990, 'No Prayer For The Dying', nonostante un ritorno a stili più duri e privi di sintetizzatori, e nonostante buoni pezzi come 'Bring Your Daughter To The Slaughter'. Il disco fu figlio della volontà di Dickinson di recuperare le radici heavy rock dell'act britannico, riportando le coordinate stilistiche ai tempi di Paul Di Anno, ma la scelta non si rivelò azzeccata e Steve Harris decise di tornare all'heavy-power ormai tipico della sua Creatura. L'uscita, nel 1992, di 'Fear Of The Dark', disco ancora molto melodico, coincise con la parziale rinascita della Vergine di Ferro; l'album venne trascinato dalla title track, una canzone emozionante ricca di cambi di tempo e della consueta perizia tecnica, evincibile in brillanti galoppate melodiche sfociate dalle chitarre di Smith e Murray. Altri pezzi di spicco sono la prima vera ballad scritta dalla band ['Wasting Love'], la solenne 'Afraid To Shoot Strangers' -solennemente ispirata nella struttura ad 'Hallowed Be Thy Name'- e la movimentata 'Be Quick Or Be Dead', uno dei pezzi più irruenti e 'da pogo' composti dall'act inglese. Purtroppo però dopo questo album Dickinson, che nel frattempo aveva iniziato una carriera solista, decise tra le polemiche di mollare la band e dedicarsi solo alla sua produzione personale. Fu un colpo durissimo per la band, imperniata sulla sua solarità scenica, e per i fans, troppo attaccati alla sua maestosità vocale, praticamente insostituibile. Proprio durante il tour di supporto a Fear of The Dark, Dickinson era apparso quasi svogliato e non tutti furono entusiasti delle sue prestazioni, decisamente più contenute e meno esplosive: in seguito, dichiarerà di essersi limitato a svolgere il proprio lavoro in maniera professionale, preferendo non esibirsi in false dimostrazioni di baldanza e coinvolgimento.
IRON MAIDEN, segue
1980 IRON MAIDEN 1981 KILLERS 1982 THE NUMBER OF THE BEAST 1983 PIECE of MIND 1984 POWERSLAVE 1986 SOMEWHERE in TIME 1988 SEVENTH SON OF A SEVENTH SON 1990 NO PRAYER FOR THE DYING 1992 FEAR OF THE DARK 1995 THE X FACTOR 1998 VIRTUAL XI 2000 BRAVE NEW WORLD 2003 DANCE OF DEATH 2006 A MATTER OF LIFE AND DEATH 2010 THE FINAL FRONTIER






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terza cellaquarta cella
BLIND GUARDIAN

A TWIST IN THE MYTH (BLIND GUARDIAN, 2006)

BARDI ANCORA SINFONICI, MA PIU' CRUDI. E chi li ferma più questi? In un cammino intrapreso ormai da qualche anno a questa parte questa band sta bruciando le tappe, muovendosi inesorabilmente verso un rinnovamento che sembra non avere una fine. Stiamo parlando ovviamente dei ‘crucchi’ Blind Guardian, che benedicono questa stagione musicale con “A Twist In The Myth”, un lavoro che come da tradizione non mancherà di far parlare di sé, nel bene e nel male. Le carte sono state scoperte, i dissidenti sono stati allontanati (il drummer Thomen Stauch, da sempre contrario alla piega che la musica dei nostri stava prendendo da “Nightfall in Middle Earth” in poi), gli obiettivi sono stati segnati, e così avanti senza guardare in faccia a nessuno. Per chi scrive, questo album rappresentava la cosiddetta prova del nove, dopo un lavoro rischiosamente audace come “A Night At The Opera”. E possiamo subito affermare che le attese non sono state completamente ripagate. L’impressione iniziale che abbiamo è che nonostante i nostri puntino come non mai sulle chitarre (i riff prima di tutto), e nonostante le stratificazioni siano ridotte notevolmente, alla fine quello che manca sono le idee davvero vincenti. Un sound più crudo, sicuramente, più violento, che non manca di impreziosire pezzi da novanta come “Otherland”, “Straight Through The Mirror”, il celebre singolo “Fly”, ma che non sembra dare i suoi frutti sulla lunga distanza. C’è anche da dire che i nostri con una abile capacità di mestiere si rimettono in carreggiata citando “Nightfall in Middle Earth” nel pezzo “Turn The Page”, pescando il ritornello di “Under The Ice” nell’opener “This Will Never End” e ispirandosi al classico “A Past And Future Secret” per comporre la comunque valida “Skalds & Shadows”. La strada sembra essere quella giusta, quella della varietà sempre e comunque, così perfetta sulla carta e così spinosa nella realtà. Non avete idea di quanto sia difficile trovare l’errore tecnico qui dentro, ma potete giurarci che l’ingranaggio rotto c’è eccome. Dopo aver ascoltato (capo)lavori come “Nightfall in Middle Earth” o “Imaginations From The Other Side” era facile (e lo è tuttora) premere play una, cento, mille volte. Con “A Twist In The Myth” la cosa non è così evidente, e quando parliamo di gruppi grossi come i Blind Guardian la cosa deve far riflettere. Un album nel complesso buono, quindi, ben al di sotto della possibilità dei 'bards' e un filino sbrigativo negli arrangiamenti, che farà impazzire chi ha amato “A Night At The Opera” e che farà storcere ancora di più il naso a chi della band ha amato la prima versione, quella con Hansi al basso, per intenderci. Come si evolverà il mito? Da Metalitalia.com

A NIGHT AT THE OPERA (BLIND GUARDIAN,

METAL OPERA D'ELEGANZA. Ogni volta che esce un disco dei Blind Guardian, è inutile negarlo, si vengono a creare delle grandissime aspettative intorno ad esso, e con esse inevitabilmente interminabili discussioni tra chi sostiene che i Blind Guardian rimangono il miglior gruppo del pianeta e quelli che 'ma i Blind Guardian di una volta erano tutta un’altra cosa'. Comunque vadano le cose, ogni disco dei quattro tedechi si colloca invariabilmente in vetta alle polls di fine anno. I Blind Guardian, seguendo la strada intrapresa con decisione da 'Nightfall in Middle Earth', hanno partorito un lavoro mastodontico, di una complessità incredibile per songwriting, arrangiamenti e produzione. I mesi chiusi in studio, merito di budgets di registrazione impensabili per quasi tutti gli altri gruppi metal ma anche di una maniacale cura per ogni dettaglio, si sentono in tutto il corso del disco, e pezzi come l’opener 'Precious Jerusalem', che sette anni fa avrebbero suonato come 'Born in the Mourning Hallì, assumono l’aspetto di vere mini-opere, tanto da porre seri interrogativi sulla loro riproducibilità dal vivo. Il disco risulta lontano dalla produzione pesantissima e veloce alla quale la band tedesca ci aveva abituato in passato, e va ad esplorare sentieri sinfonici, orchestrali, solenni e dalla classe elegante, come il titolo del platter lascia intuire. I nuovi pezzi, come già detto, non presentano il fianco critiche di sorta dal punto di vista qualitativo, anzi: canzoni come la già citata 'Precious Jerusalem', 'Under the Ice', 'Sadly Sings Destiny' o la suite finale 'And then there was Silence' si vanno ad inserire tra i brani migliori dei quattro di Krefeld, ma, anche se in misura minore rispetto a 'Nightfall', questo disco pone seri problemi di ascoltabilità: in altre parole, terminato di sentirlo una prima volta, molti ne resteranno colpiti, salvo poi lasciare il disco a prendere la polvere, a favore di lavori meno perfetti esteticamente, ma decisamente più coinvolgenti. In ogni caso, i Blind Guardian hanno sfornato un altro lavoro di grandissima caratura, che sarà certamente apprezzato dai fans (molti) cui è piaciuto Nightafell, mentre potrebbe lasciare un po’ di amaro in bocca a chi proprio quel disco non l’ha digerito. Da Kronic.it

AGENT ORANGE (SODOM, 1989)

TECNICA E VIOLENZA. To Thrash = Battere, Percuotere. Solo due parole, ma basterebbero per descrivere l'essenza di questa piccola perla che i Sodom hanno regalato al mondo del metal, perla da troppo tempo ineguagliata. I Sodom non si distinguono forse per la violenza portata all'estremo come i compagni Kreator o per la grande ricercatezza stilistica e tecnica di cui si facevano portatori i Destruction ma, come dicevano i latini, in medio stat virus, e la virtù in questo caso prende il nome di Agent Orange. Questo trio tedesco condensa in sole 9 tracce, per una durata totale di poco superiore ai 40 minuti, l'essenza di quello che il thrash metal dovrebbe essere e purtroppo raramente è: le canzoni presentate scuotono l'ascoltatore, il ritmo incalzante non concede un attimo di respiro e le chitarre ampiamente distorte (ma nel limite del sopportabile) conferiscono una rozza immediatezza ai pezzi. I rarissimi momenti a cui l'ascoltatore, rapito da un ritmo perfettamente scandito dalla stupenda prestazione alla batteria di Chris Witchhunter, viene concesso un attimo di respiro, sono subito seguiti da superbi assoli in puro stile old-school, veloci e grezzi, che lasciano, una volta conclusi, quel senso di soddisfazione che pochi chitarristi sanno regalare. Ma dopo il dovuto elogio all'aspetto prettamente musicale, non è possibile continuare senza il giusto tributo al vero leader della band, Tom Angelripper, che oltre a fare il suo ottimo lavoro al basso, conferisce quel tocco di marciume e violenza in più a tutto il prodotto con la sua voce sporca e grezza, a volte quasi un “growl mancato”, altre volte più acuta, senza però mai perdere la sua caratteristica cattiveria. In quanto alle singole canzoni, se nessuna può essere considerata di basso livello, ve ne sono alcune che spiccano tra tutte: “Agent Orange”, “Remember The Fallen” e “Baptism Of Fire” sono di certo le meglio riuscite dell'intero album, veri pugni nello stomaco dell'ascoltatore, inni al thrash nudo e crudo come pochi altri sanno fare. Qualche riga di approfondimento meritano anche i testi: in tutta la loro carriera, i Sodom hanno mostrato una grandissima coerenza nel portare avanti temi anti-bellici, schierandosi spesso contro chi, al potere, sacrifica le vite di migliaia di innocenti per i propri interessi. Lo stesso titolo dell'album è il nome di un erbicida che ha devastanti effetti sull'uomo, ampiamente usato dagli USA nella guerra del Vietnam. Tirando le somme, Agent Orange è un prodotto impeccabile per esecuzione, per testi ma anche, al tempo in cui uscì, per produzione; una vera gemma nel panorama del thrash metal mondiale. Da Metallized.it

EXTREME AGGRESSION (KREATOR, 1989)

AGGRESSIONE ESTREMA. 1989, Essen, Germania. La storia del thrash era già passata di qua tre anni prima, per consegnare all'olimpo il leggendario Pleasure To Kill, e tornava ora, dopo un buono e terribilmente sottovalutato Terrible Certainty, per portare un compagno al masterpiece del thrash europeo. Extreme Aggression, questo il nome del quarto full-lenght dei tedeschi Kreator, è uno dei più grandi classici della band, forse il migliore dopo il già citato Pleasure To Kill, rispetto al quale mostra sia segni di continuità sia evidenti mutamenti dovuti ad una maturazione tecnico/stilistica notevole. Aggressione Estrema, il modo migliore per descrivere il disco, un titolo davvero azzeccato che racchiude il pensiero della band in due parole; peculiarità della band teutonica è sempre -o quasi- stata infatti quella di portare avanti un messaggio musicale incentrato su di un'aggressività senza compromessi, dalle strutture ritmiche semplici e dirette e testi genuinamente rabbiosi. Questa missione si concretizza qua in maniera concreta e splendida, prendendo forma in canzoni indimenticabili come la title-track, No Reason To Exist o Betrayer, pezzi ormai entrati nella storia della band; esse, come tutte le altre presenti sul disco, sono costituite da uno schema piuttosto semplice ma efficacissimo e mai noioso: un inarrestabile Ventor alla batteria guida con grande caparbietà una suprema sezione ritmica, quasi sempre lanciata a grandissima velocità e supportata a sua volta da un riffing impenetrabile e tesissimo che non lascia spazio a punti morti; da segnalare la grandiosa capacità, sotto questo punto di vista, di ottenere una certa varietà tra i riff, che scorrono velocissimi uno dietro l'altro con minuscole variazioni che contribuiscono ad un ottimo risultato finale (uno splendido esempio ci viene fornito da Stream Of Consciousness). No Reason To Exist e Love Us Or Hate Us ci mostrano come alcune band, quelle una spanna sopra alle altre, possano essere grandiose anche senza molta originalità: i due pezzi sono piuttosto simili tra di loro e canonici in generale, ma la grinta con cui la band li propone, la voce al vetriolo, semplicemente unica, di Petrozza e la violenza con cui colpiscono l'uditorio le rendono pezzi memorabili. Con Some Pain Will Last la band si avventura su territori più lenti: il risultato è un pezzo inquietante e dall'incedere pesante, in cui Mille trova una forma davvero incredibile nell'interpretazione, accompagnando alla perfezione il lavoro ritmico dei compagni; nel finale, a scongiurare l'effetto monotonia, sopraggiunge una provvidenziale accelerazione. Il vero classico arriva però con Betrayer, destinata a stabilirsi fermamente nelle setlist live delle band: il brano rimanda ai Kreator più grezzi dei primi due dischi, con una struttura semplice, rabbiosa, la batteria che insiste ossessivamente sullo stesso ritmo e la linea vocale più feroce che mai, soprattutto nel refrain,,destinato nei live all'accompagnamento da parte del pubblico con un risultato devastante. Insomma, Extreme Aggression è uno dei migliori dischi della band, e anche un punto di riferimento per la storia del thrash mondiale; un disco carico di rabbia, cattiveria, veemenza; una delle maggiori testimonianze di come la passionalità può sopperire ad una tecnica non sopraffina, confezionando comunque un capolavoro. Se vi ritenete amanti del lato duro del metal, questo disco dev'essere nella vostra collezione; se non lo è ancora, c'è qualcosa che non quadra. Da Metallized.it

RHAPSODY OF FIRE


TRIUMPH OR AGONY (RHAPSODY OF FIRE, 2006)

MENO POTENZA E PIU' OPERISTICA. Tornano, dopo un solo anno dalla pubblicazione di “Live In Canada 2005 – The Dark Secret”, i Rhapsody o meglio, “Rhapsody Of Fire”. A causa, infatti, di problemi relativi al copyright del nome “Rhapsody”, recentemente rivendicato dagli americani “The Rhapsody”, i nostri sono stati costretti a modificare leggermente il loro monicker. Tutto ciò non ha però intaccato minimamente il sound della band, ora più che mai dedita a quel “film score metal” che da tempo li caratterizza. Il nuovo "Thriumph Or Agony" è, di fatto, il lavoro più epico composto dal five piece capeggiato dalla coppia Turilli-Staropoli, nonché secondo capitolo della “Dark Secret Saga”, iniziata col precedente “Symphony of Enchanted Lands Pt II”. Ancora una volta il disco è stato prodotto proprio dai due guru della band, come sempre affiancati dall’onnipresente producer Sascha Paeth. I risultati di questa collaborazione ormai pluriennale, vengono esaltati al massimo dalla presenza di un’orchestra ed un coro per un totale di 70 elementi. Sebbene “Triumph Or Agony” contenga tutte le caratteristiche tipiche delle produzioni recenti, si nota uno spostamento verso composizioni più lente e operistiche e trovano in esse minor spazio le sfuriate di doppia cassa tipiche del passato. Apre il disco un'intro sinfonica, prima dolce e poi progressivamente sempre più intensa, preludio alla successiva titletrack, traccia stilisticamente distante dalle bordate power solitamente poste in apertura, ma articolata, con cori da paura e un ritornello potente e maestoso. Con la successiva “Heart Of The Darklands” la band fa un piccolo passo indietro verso il periodo dei primi due dischi. Il pezzo, sempre sostenuto da imponenti orchestrazioni, si mantiene su coordinate canoniche e tipiche del power-prog degli esordi. Buona anche se non certo innovativa l’apertura melodica del chorus, in cui risalta la voce potente e allo stesso tempo cristallina di Lione. “Old Age Of Wonders” è il primo lento del disco ed è inoltre uno dei momenti meglio riusciti dello stesso, frutto anche dell’inserimento di vocals femminili a livello del ritornello e dell’ottima interpretazione di Fabio. Il vocalist raggiunge però il massimo dell’espressività nella ballata “Il Canto Del Vento”, totalmente in italiano e non a caso tutta farina del suo sacco. Il risultato è ottimo e la prova del singer è da pelle d’oca, non resta che sperare di poterla apprezzare pienamente in sede live. Ottima, forse la migliore del lotto, “Silent Dream”, un mid tempo molto diretto con ritornellone in crescendo orecchiabilissimo. Un altro potenziale caposaldo nelle future esibizioni on stage. La durata media dei pezzi si assesta intorno ai 4-5 minuti, le composizioni sono quindi più corte e snelle rispetto al precedente album in studio ed anche i tecnicismi chitarristici e tastieristici trovano molto meno spazio. Verrebbe da chiedersi: e la mega suite finale? Niente paura, eccola qua con i suoi 16,26 minuti di durata e suddivisa in ben cinque parti. Ad aprire questo lungo episodio un bell’arpeggio che, affiancato da archi e flauti, lascia presto la scena ad un riff in pieno Manowar style, adornato da cori ed orchestrazioni. La traccia prosegue con un bel chorus ed accelerazioni improvvise, contrapposte a parti più lente e narrate nelle quali fa capolino ancora una volta Christopher Lee (in arte Saruman de “Il Signore Degli Anelli”). In definitiva, siamo di fronte ad un buonissimo disco, tecnicamente ineccepibile, in linea con le migliori uscite della band e contenente diversi brani candidati a diventare dei classici. La copertina è realizzata da Jeff Easley ed è, come al solito, molto bella ed adatta alla proposta musicale. Resta solo il rammarico della quasi totale assenza di elementi innovativi e la convinzione che i Rhapsody Of Fire potrebbero, a questo punto della loro carriera, osare un po’ di più senza comunque snaturare il loro ormai inconfondibile sound. Da Metalitalia.com

SYMPHONY OF ENCHANTED LAND II- THE DARK SECRET (RHAPSODY, 2004)

RHAPSODY, RICOMINCIA LA SAGA. Il nuovo disco dei Rhapsody era molto atteso per vari motivi. Come tutti i fan della band sanno, il precedente "Power Of The Dragonflame" aveva messo la parola fine alla saga scritta da Luca Turilli e, fattore molto importante, aveva chiuso il sodalizio artistico con la LMP di Limb. L'aver firmato poi per un'etichetta potente come la SPV, i cui mezzi finanziari sono di molto superiori a quelli di Limb, lasciava ben sperare per il futuro del combo italico. Inoltre, molto si era parlato negli ultimi mesi del nuovo sound creato dalla band, il già ormai famoso Film Score Metal, e della presenza come narratore dell'attore Cristopher Lee, il Saruman della recente trilogia cinematografica "Il Signore Degli Anelli". Tutte le aspettative non sono andate deluse, e "Symphony Of Enchantend Lands II" si presenta come un assoluto capolavoro, certamente il migliore dal punto di vista sinfonico. E non a caso il titolo richiama alla mente il secondo disco, quel "Symphony Of Enchantend Lands", must del metal sinfonico che consacrò il gruppo a livello internazionale. Chiara quindi l'intenzione di Turilli e soci di richiamare in questa sede le atmosfere di quel disco, senza per questo dimenticare ciò che era stato fatto con i due album successivi. Questa volta i Rhapsody hanno potuto contare su un'orchestra e un coro completi, quelli della Bohuslav Martinu Philharmonic Orchestra della Repubblica Ceca, ottenendo una resa sonora eccezionale e di una bellezza sconvolgente. Quindi, tutto è suonato da strumenti veri, e non è stato necessario come in passato integrare il suono degli strumenti classici con qualche violino sintetizzato e cose del genere. Per quel che riguarda i testi, la nuova saga racconta avvenimenti accaduti qualche anno dopo quelli conclusisi nella precedente, risultando quindi collegata ad essa. Dopo tutte queste doverose premesse, andiamo ad analizzare la musica contenuta nel disco. L'inizio è affidato alla consueta intro seguita da "Unholy Warcry", singolo apripista della nuova release, nel classico stile della band in cui però è già riscontrabile una maggiore profondità nei cori e nelle orchestrazioni rispetto al passato. "Never Forgotten Worlds" è incentrata su cangianti atmosfere medioevali dalle quali nasce la classica cavalcata power del gruppo, con un Lione che raggiunge livelli di liricità fuori dal comune. La strumentale "Elgard's Green Valleys" fa da preludio alla lenta e maestosa "The Magic Of The Wizards Dream", mentre con la successiva "Erian's Mystical Rhymes" si inizia a capire cosa sia il Film Score Metal. Con questa canzone vengono evocate atmosfere dai connotati drammatici; Lione con i suoi giochi di voce e Staropoli, in splendida forma, prendono per mano la band e la conducono verso uno degli episodi meglio riusciti dell'intero lavoro. "The Last Angels' Call" è molto immediato e prende spunto dal recente passato della band: anche qui il ritornello è assolutamente indimenticabile e la prova di Turilli da incorniciare. "Dragonland's Rivers" è un tanto breve quanto piacevole pezzo in stile medioevale, che cede il passo a "Sacred Power Of Raging winds", autentica gemma dell'intero lotto. Qui la band tira fuori il meglio di sé, regalandoci una composizione dai repentini cambi di tempo; passando da suadenti e incantevoli momenti melodici, a feroci sfuriate metalliche. L'apporto dell'orchestra crea un suono uguale, in tutto e per tutto, a quello delle migliori colonne sonore e grazie a Lione, vengono raggiunti momenti di teatralità pazzesca. Dopo tutte queste emozioni, viene lasciato spazio ad un lento cantato in italiano, "Guardiani Del Destino", un pezzo che è pura magia, in cui Lione si diverte a fare il verso a Branduardi. Spazio ora a "Shadows of Death", la canzone più metal ed aggressiva del disco, seguita da "Nightfall On The Grey Mountains" che chiude in maniera solenne questo magnifico disco. Non c'è alcun dubbio: i Rhapsody hanno abbattuto una nuova frontiera nel campo dell'heavy metal sinfonico, creando un sound unico nel suo genere che non conosce rivali. Capolavoro. Da Metalitalia.com

ROOTS (SEPULTURA, 1996)

TRIBAL THRASH DEATH. Una delle accuse più frequenti mosse dall’ottusità di certi critici nei confronti dell’Heavy Metal è quella di essere un genere poco innovativo e monocorde (direi, comunque, che per essere una scuola musicale in auge da più di quarant’anni questa asserzione sia molto stupida e superficiale). A queste persone consiglierei vivamente l’ascolto di Roots dei Sepultura, album pubblicato nel 1996 per l’etichetta Roadrunner Records. Si tratta, infatti, di una delle migliori release del gruppo che sin dall’epoca della sua uscita suscitò enormi polemiche per la decisione di sperimentare nuove strade mai battute in precedenza inventando letteralmente un nuovo stile. Il disco succede al magnifico Chaos A.D. dal sound molto potente e diverso da quello proposto in passato. In Roots la band cambia ancora coniugando sapientemente il death/thrash metal ad interessanti sonorità etniche al punto tale che il nuovo genere sarà etichettato come "heavy metal world music”. Lo spirito è quello di ricercare le proprie radici attraverso l’esaltazione della vita tribale. Roots è un lavoro corposo, molto complesso, con sonorità durissime, cattive, spesso lente, basse, sporche e potenti con ritmi sincopati che evidenziano l’influenza nu-metal (non è un caso che su Lookaway ci sia il significativo apporto di Jonathan Davis dei Korn e di DJ Lethal dei Limp Bizkit). L’open track Roots Bloody Roots è uno dei brani più famosi che non manca mai nelle esibizioni dal vivo dei Sepultura; Max Cavalera è aggressivo ed urla a squardiagola accompagnato da chitarre deliranti e da una sezione ritmica possente. Attitude, il cui testo fu scritto con la collaborazione di Dana Wells, il figliastro di Max Cavalera (nato dal primo matrimonio della moglie Gloria) che morì tragicamente poco tempo dopo, è introdotto da suggestive sonorità tribali. Da evidenziare lo straordinario ritmo sincopato della batteria di Igor Cavalera. Ratamahatta, con un intro etnico, è cantato in portoghese in duetto da Max e dal noto connazionale Carlinos Brown, con la presenza di David Silveria dei Korn alla batteria. L’album è intenso, non ha mai un attimo di pausa e tutti i brani sono di notevole levatura: si passa dal thrash più classico di Spit, Dusted, Cut-Throat e Born Stubborn, alla velocissima e breve Dictatorshit; dalla melodia strumentale di Jasco ad Itsari che venne registrata con i Xavante etnia indigena del Mato Grosso (Brasile). Inquietante ed epica Endangered Species La conclusiva Canyon Jam è un insieme di suoni, rumori e percussioni registrati in un canyon ai piedi degli Indigo Studios. Il successo commerciale di Roots fu travolgente: ben un milione di copie vendute nel mondo! Purtroppo fu anche il canto del cigno del combo brasiliano: il leader abbandonerà il gruppo per fondare i Soulfly e proseguire nella ricerca di nuove sperimentazioni musicali, mentre i Sepultura continueranno la loro carriera senza raggiungere più le vette del passato. Da Metallized.it