PRATICE WHAT YOU PREACH (TESTAMENT, 1989)

THRASH, DALLA FURIA ALLA MELODIA. Practice What You Preach rappresenta per la band di Oakland un album cardine della discografia. Se preferite, è un album unico e di passaggio, punto di equilibrio tra il vecchio ed il nuovo, fra l’ordinario ma eccellente Bay Area di 'The Legacy' e 'The New Order' che aveva contraddistinto il songwriting fino al 1989, e il nuovo corso che, da Souls of Black (1990) in poi, si sarebbe andato a sviluppare. Dietro gli strumenti si trovano sempre i cinque membri che hanno fatto storia e che la storia ha fatto maturare. Infatti questo potrebbe essere considerato il full-length più maturo che il combo californiano abbia mai sfornato in ormai venti anni di carriera. Il perché è presto detto. Anche a un primissimo ascolto si nota un inspessimento del songwriting, meno impattante, ma più ragionato. Un aspetto compositivo estremamente ricco di particolari con arrangiamenti molto curati e cambi di ritmo tra i vari passaggi di tema che non lasciano affatto indifferenti. Si ottiene così la traslazione da un’attitudine da stage diving che in passato brani come Over The Wall sapevano scatenare a strutture ricercate e puntuali, che si fanno godere più per un aspetto tecnico che adrenalinico (che comunque non manca). Se a questo aggiungiamo potenza, personalità e veemenza espressiva allora il gioco è fatto. Chuck Billy è in grandissima forma, potente nei clean e ruggente quando serve, non facendo rimpiangere le prestazioni dei dischi precedenti. Peterson la solita sicurezza quando c’è da strutturare le sempre più convincenti ritmiche del Testament sound. Greg Christian altro non deve fare che seguire e amplificare un comparato drumming che Louie Clemente scolpisce nel granito, a testamento di una prestazione incredibile e quasi irripetibile. È però Alex Skolnick che si segnala come autentico trascinatore: l’axeman impreziosisce le canzoni con chicche favolose, soprattutto nell’esecuzione dei soli che rimarranno come alcuni dei migliori mai composti con i Testament (e forse dell’intera carriera). Altro fattore di merito è la produzione che, ancora immune dall’imminente necessità di uniformare la pulizia a ogni proposta da immettere sul mercato, permette al sound di conservare il sapore della strada, della primigenia natura di un genere libero e immortale proprio quando era imperfetto, ma nella sua imperfezione carico di fascino e sincerità. Practice What You Preach essenzializza la maturazione di una band nata vera, consapevole di aver raggiunto il proprio apice, che suona un thrash Bay Area tecnico e maturo. Mai si potrà sapere dove sarebbero potuti arrivare se, anziché partorire il debutto nel 1987, lo avessero emesso 3 o 4 anni prima come fecero altri illustri colleghi. Rimane il fatto che qui si chiude un’era, quella old style, quella della giovinezza thrash più pura. Rimane altresì il rammarico di non aver seguito successivamente la strada qui intrapresa, perché di album così maturi nel thrash non ne sono stati fatti molti.