SIGN OF THE HAMMER (MANOWAR, 1984)

MANOWAR, APOTEOSI DI GRANDEZZA. Il 1984 è stato un anno molto produttivo per i Manowar, che prima hanno pubblicato Hail to England, successivamente Sign of the Hammer. Questo album inizia con due pezzi di heavy classico, all'americana. 'All Men Play On Ten' è un tributo all'etichetta del momento, la 10 Records, e allo stesso tempo il manifesto del leit motiv dell'esistenza manowariana, ossia la lotta al false metal. Eric Adams ci canta a squarciagola che i Manowar non si piegheranno mai e poi mai alle esigenze dei produttori e delle mode, e che nessuno li comprerà mai. La canzone è orecchiabile, gradevole, anche se piuttosto semplicina. 'Animals' è altrettanto accessibile e scivola via senza troppi fronzoli. Lo spettacolo di Sign of The Hammer inizia con 'Thor'. Joey & Co. scomodano niente meno che la mitologia nordica, e narrano una battaglia di mostri, giganti e uomini, che assomiglia molto al Ragnarok, la battaglia finale. Eric è in formissima per tutto il pezzo, interpreta alla grande, e finisce con un impressionante acuto da 31 secondi. In 'Mountains' si cambia ritmo diverse volte, passando dal lento molto atmosferico, al midtempo, alla marcia. Eric dimostra che non ha solo polmoni, ma anche una voce calda e carica, oltre che una grande espressività e un feeling interpretativo secondo a nessuno. Bello l'accompagnamento, il ritornello è a dir poco suggestivo. Il testo è affascinante, una poetica metafora sulla montagna, e la sfida alla maestà delle altezze, laddove solo le aquile possono volare. Una sfuriata sotto il segno di Mjolner ci annuncia 'Sign of the Hammer', la title track, che sorprendentemente non ha niente a che vedere con Thor e Odino, ma che mitizza la band, in una novella Eneide, consegnando ai Manowar l'immortalità e il ruolo di alfieri della vendetta degli Dei. Siamo di fronte al più classico heavy/speed americano, non fosse per testi, bridge e ritornello che sono epicissimi e trascinanti. ' The Oath' inizia con una sfuriata sulla batteria del vecchio Scott, dopodiché il ritmo si stabilizza e inizia un testo leggermente delirante. A grandi linee si parla di un impegno di battaglia contro un determinato popolo, o una determinata setta. Se non fosse per strane affermazioni sui draghi, mi parrebbe di capire che si parla di un comandante romano, dei tempi della repressione anti cristiana, che si appresta a far stragi tra i profeti e i loro seguaci. I suoni sono selvaggi e incessanti, la voce carica, cattiva, violenta, il basso ai massimi livelli. 'Thunderpick' rappresenta ciò che non può mancare in un sano album dei Manowar: l'assolo di basso. Chiariamoci, il basso di Joey non è un basso normale. Si tratta di 4 corde di chitarra ravvicinate, raccolte in fondo al manico e suonate velocissimamente col plettro. Forse il più bello dei pezzi per solo basso di Mister De Maio: tecnico, ma anche melodico ed epico, vale la pena ascoltarlo. Il gran finale dell'album, che purtroppo dura troppo poco, si materializza con 'Guyana (cult of the damned)'. Si tratta del primo testo 'impegnato' dei Manowar. Antefatto: il 18 novembre del 1978, in una radura nella foresta della Guyana, il reverendo Jim Jones ordinò ai 911 membri della sua setta di uccidersi bevendo un intruglio al cianuro. Certo che l'armageddon fosse imminente, oppure desideroso di sperimentare le sue tecniche di manipolazione delle masse, temute perfino dai servizi segreti americani, Jones diede il macabro ordine, e a morire non furono solo adulti consenzienti, perchè il veleno fu propinato anche ai bambini della comunità. I cultisti avevano ricevuto il lavaggio del cervello da mister Jones, che a sua volta si sarebbe tolto la vita sparandosi alla testa, anche se si sospetta che qualcun altro gli abbia dato il benservito. Jones prese il suo posto di diritto nell'iconografia americana dei malvagi per eccellenza, affianco a gente del calibro di Charles Manson. Come avete capito, Guyana parla del reverendo Jones e della setta dei suicidi. Maestoso attacco di basso, un arpeggio magistrale che c'introduce ad una marcia epica, che lascia il posto ad altri cambi di tempo, che di volta in volta sottolineano la drammaticità dei cori. Un grande pezzo, degno di concludere un grande album, e una grande era Manowar. Come accade in tutti i primi album, la band miscela heavy classico americano e heavy metal epico, con lo stile inconfondibile e unico che tutti conosciamo. Sign Of The Hammer è l'ultimo album dei 'vecchi' Manowar. Anche un sordo può capire, infatti, che, dopo il rockeggiante Fighting the World, da Kings of Metal le cose sono cambiate parecchio, il sound della band ha iniziato a prendere una piega molto più power e 'moderna', abbandonando progressivamente i suoni più classici. Sign of the Hammer rappresenta l'apoteosi del vecchio stile Manowar. Il suono è metallico come non mai, la produzione è grezza, ma la voce è tagliente, pura, potente, altissima, le distorsioni sono metalliche e cattive, l'originale basso di Mister De Maio viaggia alla grande. Il mix di pezzi lenti e veloci è dimostrazione della maturità raggiunta dalla band, che non scade mai nella banalità e non teme critiche o confronti, ma come sempre prosegue a testa alta per la propria strada.