THE RITUAL (TESTAMENT, 1992)

IL CAPITOLO 'FACILE' DEI TESTAMENT. Il 1992 è, forse, il vero anno di transizione in casa Testament. E l’album in questione può essere visto come il cosiddetto “pomo della discordia”, per i seguenti motivi: 1) In quegli anni il grunge stava prendendo il sopravento sulla scena internazionale; 2) Skolnick e Clemente volevano un evoluzione più easy del Testament-Sound, mettendosi così contro il resto della band; 3) La Blackalbumania era come un virus che colpiva le thrash metal band dell’epoca; 4) Proprio il thrash metal sembrava essere arrivato al capolinea; 5) E in sintesi “The ritual” sembrava essere l’ultimo canto del cigno dei “figliocci” della Bay Thrasher’s Area. Da questi motivi si può dedurre che cosa rappresenti il 5° album ufficiale per l’intera discografia dei Testament, e per la scena thrash in generale. La rabbia omicida che aveva caratterizzato i precedenti lavori di Chuck & family, non esiste più. È svanita via nel buio degli anni novanta, quelli neri per i thrasher’s, insieme alla velocità e alla potenza che tanto avevano contraddistinto un genere maledettamente pesante come il thrash. “The Ritual” sta quindi in mezzo alla storia dei Testament. Succede all’ottimo “Soul of black” e anticipa il feroce “Low”. Ma questo non può essere indicato molto come un album dei Testament. Skolnick alla fine l’avrà vinta: il sound è molto easy listing, la voce di Billy è pulita, gli arrangiamenti orecchiabili, i suoni lisciati, i ritmi accessibili e una produzione migliore rispetto al passato. È un disco che fatica a far conoscere la sua vera natura. Le chitarre danno spesso l’impressione di dar vita ad una specie di hard rock, a volte più heavy ed altre più pulito ed armonioso. Il basso è messo troppe volte in secondo piano e il doppio-pedale di Clemente sembra un miraggio. I riff sono rallentati e in rare occasioni prendono una certa velocità, nemmeno lontanamente parente della primordiale fottuta rapidità d’esecuzione, che tanto ha fatto la fortuna della band di San Francisco. La comandano gli arpeggi melodici e il riffing impostato sulle intuizioni di Skolnick ed i suoi guitar solo. Le tracce da citare sono soprattutto “Eletric crown”, bello il suo ritornello e il suo ritmo incalzante, “Let go of my world”, la song più cupa del disco e che non avrebbe sfigurato in un disco come “Soul of Black”, e la splendida “Return of serenity”, una delle più belle ballad metal della storia, che forse vale da sola l’acquisto del disco. Non dispiace nemmeno il brano di chiusura “Troubled dreams”. Il resto non è niente di echeggiante, e niente viene ricordato con tanto entusiasmo su questo album, se vogliamo “commerciale”.