UN TRIONFO D'ACCIAIO. In uno dei periodi più neri e poco produttivi della storia dell'heavy metal ecco sopraggiungere spiragli di luce: l'uscita di un disco come The Triumph of Steel segnala che c'è sempre qualche fiamma che arde sotto la cenere, pronta a riprendere vigore. Il grunge dei Nirvana sembra avere condannato a morte l'intero movimento metal, ma contro qualsiasi compromesso con il Music Business e contro qualsiasi trend del momento e con la voglia sempre pronta di dimostrare che il true metal never die, ecco che i "Kings of Metal" partoriscono la loro settima creatura, il loro lavoro più tecnico e complesso e che forse alla lunga risulta anche il loro più affascinante. Inutile dire che la critica musicale stroncò l'album come del resto è sempre successo per qualsiasi uscita dei Manowar, ma i fans dettero la loro approvazione incondizionata e molti di essi lo annoverano come il loro preferito. Troviamo una formazione per metà rimaneggiata: infatti dopo alcuen incomprensioni Ross the Boss lascia la band e Scott Columbus lo segue momentaneamente per stare vicino al figlio malato di leucemia. I sostituti sono David Shankle ed il drummer Rhino, un vero mago quest'ultimo nell'uso dei piatti e della doppia cassa. Rispetto a Kings of Metal i pezzi sono mediamente più sinfonici e intricati e la durata delle canzoni si allunga superando spesso i sei minuti. Per mettere subito in chiaro le cose i Manowar concepiscono la prima song (che sfiora i 30 minuti) ispirandosi al duello tra Ettore e Achille descritto nell'Iliade di Omero, suddividendolo in 8 parti per dare un'idea dettagliata di questa grande sfida messa in musica. Stiamo parlando dell'immensa Achilles, Agony And Ecstasy In Eight Parts. Dopo un breve e propizio preludio Hector Storms the Wall che ci addentra nel potente metallo epico e incandescente dei Kings cui fa seguito il canto struggente di The Death of Patroclus sentimetalmente molto intensa. David Shankle si dà da fare per dimostrare a tutti di che pasta sia fatto ed è sua Funeral March, marcia lenta e gloriosa e pomposa che prepara la strada per la vendetta di Achille. Armor of the Gods è un bellissimo assolo di batteria dove Rhino mette in risalto la propria padronanza dello strumento con la sua tecnica sopraffina. Si ritorna a suonare tutti insieme per la magica e propulsiva Hector's Final Hour e la vorticosa Death Hector's Reward; mentre l'ego di Joey può sentirsi più che gratificato dal prolungato assolo di The Desecration of Hector's Body. Il destino di Ettore è segnato e ormai Achille può coprirsi di gloria. L'atto finale è The Glory of Achilles, veloce mazzata spacca pietre trascinata dall'imponente voce di Eric e dall'ottima prova di basso e chitarra in grado di regalarci diversi assoli sulle ripartenze. Finita così la prima parte dell'album, da considerarsi come un disco dentro il disco, procediamo con la seconda che riprende la classica forma: Metal Warriors è un omaggio ai numerosi fans della band, grezza e semplice, e ha dalla sua un messaggio propedeutico intestino che in questo caso conta più della musica stessa: 'Heavy metal or no metal at all whimps and posers leave the hall!' Velocità, dinamicità ed un'attitudine fuori dal comune sono il punto di partenza di Ride The Dragon: song abbastanza sottovalutata e nonostante tutto di una certa prestanza, è da ascoltarsi meglio e con maggiore gusto. Si giunge così alla quarta traccia, un'ottima song dedicata ai nativi americani; un vero e proprio tributo a questo popolo fiero e coraggioso ma dalla tragica storia, da cui anche il nostro Joey in parte discende... E' Spirit Horse Of The Cherokee, che inizia con la voce narrante in lingua nativa di uno sciamano che racconta il triste destino degli indiani da quando i coloni bianchi giunsero in America. La song procede poi cadenzata con un'incredibile interpretazione da parte di Adams che ne fa uno dei pezi forti dell'album! Si prosegue poi con Burning, imperniata su un ruvido e incisivo riff di Shankle per dare poi vita al pezzo più cattivo e bastardo dei Manowar (anche il testo parla chiaro) e con le sadiche sghignazzate di Eric sul finale... I nemici del metal siano avvertiti. Segue un'altra song, ovvero The Power Of Thy Sword, accompagnato dai suoni di spade che cozzano e da cori mitici e possenti; un concentrato di acciaio e di epicità senza limiti volti ad esaltare la figura del guerriero in ogni sua lotta. Rhino e Shankle sono diabolicamente tecnici e la ripartenza dopo il melodico stacco centrale è qualcosa che ti fa gioire ad ogni ascolto. Si arriva così a The Demon's Whip, altra prova indimenticabile che riprende la cattiveria di Burning, pur nella sua irripetibilità. La velocità della parte finale è allucinante e molto bello è pure l'assolo centrale. Dopo la terra bruciata fatta finora è però ora il momento dell'addio, ed in questo caso l'atmosfera si fa dolce e luminosa: la splendida ballad Master Of The Wind è lì a dimostrare che ogni pezzo dei Manowar è storia a sè e che i nostri possono creare musica di vario genere. Ancora una volta sentendo Motw concentratevi sulla voce di Adams, è impossibile che non vi venga la pelle d'oca. Settimo grande lavoro da consegnare ai posteri, con The Triumph of Steel i Kings dimostrano ancora una volta che quando si tratta di metal epico non hanno rivali. Il contenuto mantiene alla grande ciò che il titolo fa come promessa: un vero e proprio trionfo dell'acciaio.