GODS OF WAR (MANOWAR, 2007)

UN NUOVO CORSO D'EPICISMO. Ogni volta che vede la luce un nuovo disco dei Manowar si scatenano critiche di ogni tipo, da chi li osanna a chi li considera buffoni, ripetitivi, pacchiani e quant'altro. Solitamente però lo zoccolo duro dei fan più accaniti fa quadrato intorno alla band rimandando al mittente tutte le polemiche suscitate dalla pubblicazione dell'album in questione. “Gods Of War” è, come gli altri, un album che sta facendo e farà discutere molto e questa volta sembra che spaccherà gli schieramenti in maniera trasversale. Già, perché anche chi stravede quasi unicamente per i Manowar del primo periodo avrà qualche difficoltà ad assimilare questo prodotto. Il nuovo disco è infatti sì un album molto epico ma distante dal concetto di epic metal ottantiano e, al contrario, affine all'epic metal sinfonico e orchestrale più moderno. Il lavoro è il primo di una serie di concept incentrati sugli Dèi della guerra e in questo primo capitolo i Manowar hanno voluto render tributo a Odino. “Gods Of War” è strutturato in maniera differente rispetto ai suoi predecessori e, sebbene contenga i consueti otto pezzi suonati, è anche pregno di intermezzi e parti narrate. Il disco si apre infatti con una lunga e suggestiva intro orchestrale che fa da preludio alla già nota “The Ascension”, altra intro evocativa sul finale della quale Eric Adams dà già prova delle sue assolute doti sui cantati puliti. Pochi secondi e deflagra “King Of Kings”, anch'essa già conosciuta e collaudata con successo dal vivo. E' il classico pezzo tirato alla Manowar, aggressivo, diretto, coinvolgente e con break centrale da brivido. Tocca poi al gradevole intermezzo corale “Army Of The Dead Part I” che preannuncia “Sleipnir”, pezzo abbastanza leggero che inizia con una parte parlata e sfocia presto in un ritornello estrememente immediato. Ecco quindi “Loki God Of Fire”, mid tempo riffato ma rovinato da un'eccessiva ripetitività sul finale di un ritornello già di per sé poco esaltante. “Blood Brothers” è un bellissimo lento sullo stile di “Master Of The Wind”, molto emozionante e con una prova di Eric da pelle d'oca. Si prosegue con “Overture To Odin”, intermezzo orchestrale già pubblicato sull'EP apripista col nome di “Odin”, seguito da “The Blood Of Odin”, parte narrata che precede “The Sons Of Odin”. Questa, come già detto in sede di recensione dell'omonimo EP, è un classico mid tempo epico che rispetto alla versione precedentemente edita, ha qualche coro in più nella parte finale. Uno dei pezzi migliori. Segue quindi uno degli episodi più tamarri che il quartetto newyorkese abbia mai proposto, ossia “Glory Majesty Unity”, un altro intermezzo narrato che ripropone la parte finale della vecchia “The Warrior's Prayer” in versione salmodiata... da sentire. La titletrack, anch'essa già nota, è un mid tempo maestoso, marziale e sinfonico, ottima espressione del nuovo corso che la band ha intrapreso. A seguire, la seconda parte di “Army Of The Dead” quasi identica alla prima (e quindi di dubbia utilità), ripresa in formato 'metallizzato' anche nel finale della successiva “Odin”, brano cadenzato e drammatico. “Hymn To The Immortal Warriors” chiude le danze alla grande, grazie al suo taglio estremamente solenne ed evocativo, qualità garantite da un massiccio uso di cori ed orchestrazioni. Avrete notato l'assenza della parola “metal” nei titoli, ma ecco la bonus track “Die For Metal” a riassumere tutto il credo religioso dei nostri per la causa. Con un riff simile a Kashmir dei Led Zeppelin, è una canzone poco adatta al contesto, cadenzata, con dei cori ultrapacchiani e che potrà magari risultare divertente in sede live. In “Gods Of War” le parti prettamente metal sono ridotte rispetto al passato, i riff si contano sulle dita di una mano e a conti fatti qualche intermezzo poteva essere evitato o quanto meno snellito. Il consiglio è comunque quello di ascoltare questo disco con calma, introduzione e testi alla mano, e solo così si potrà apprezzare questo nuovo e coraggioso corso intrapreso dai “Kings”.