SOMEWHERE IN TIME (IRON MAIDEN, 1986)

HEAVY METAL PIU' MODERNO. Album un po' atipico, questo "Somewhere in Time", per la fondamentale band inglese: già dall'intro "elettronica" dell'iniziale "Caught somewhere in time" si può capire che il contenuto sarà un po' diverso dal solito. Infatti pare che per questo album i Maiden abbiano deciso di rallentare un poco, di fermarsi per costruire nel dettaglio la struttura delle canzoni ed il suono del disco. Grazie a questo accorto lavoro nascono ottime songs, alcune apparentemente pensate apposta per essere suonate dal vivo (è il caso di "Heaven Can Wait" e "Wasted Years", che entra subito nei classicissimi del combo britannico.), altre con momenti epici di rara bellezza (soprattutto "Alexander the Great" ma anche “Stranger in a strange land”) o con melodie particolarmente azzeccate ( “The loneliness of the long distance runner” e “Deja-vu”). L’artwork è sempre a cura dell’ottimo Derek Riggs, che per realizzare la dettagliatissima copertina deve aver sudato non poco: un Eddie bio-meccanico che si muove in una città futuristica ricca di riferimenti più o meno evidenti alla band ( che dire per esempio dell’”Aces High Bar” o dell’orologio che segna esattamente “Two Minutes to Midnight”?) e, alle spalle della mummia/zombie i cinque Iron Maiden riprodotti abbastanza fedelmente. Il sound non è certamente quello degli album precedenti: in alcune canzoni si ha un sottofondo di tastiere e la voce di Bruce-Bruce appare leggermente distante, meno in primo piano rispetto per esempio al precedente Powerslave, dove sentivamo una voce carica, squillante, ricca di energia. Qui Dickinson utilizza più che in passato i registri bassi del suo repertorio, dimostrando ancora una volta la sua grande versatilità. Il suono delle chitarre appare addolcito rispetto al passato, e forse è proprio questo che fa si che "Somewhere in Time" non sia un album propriamente aggressivo se rapportato ai predecessori. Nelle intro lente una chitarra dolce è perfetta("Dejavu", "Alexander the Great"), ma quando si vuole pigiare un po' di più sull'acceleratore servirebbe qualcosa di leggermente più cattivo. Caught Somewhere In Time è il brano che apre l'album e introduce subito l'ascoltatore sia alle nuove sonorità della band sia alle tematica dei viaggi (in questo caso un viaggio nel tempo offerto dal diavolo come tentazione). Wasted Years racconta la nostalgia di casa provata dall'autore (Adrian Smith) durante i continui spostamenti effettuati durante il World Slavery Tour. Sea Of Madness è un ottimo brano con una parte centrale melodica. Heaven Can Wait, dall'inconfondibile coro ripetutamente cantato dal vivo con il pubblico, ci descrive un viaggio nell'aldilà in una esperienza post-mortem. The Loneliness Of The Long Distance Runner è un capolavoro di ritmica con un Nicko McBrain che sprona gli altri e detta il tempo per tutta la canzone. Il testo descrive la fatica, la determinazione e lo sconforto di un maratoneta durante una gara. Stranger In A Strange Land, pubblicata come secondo singolo, ci parla di un emigrante che giunge nel Nuovo Mondo e si perde, come tanti, fino a quando il suo corpo viene ritrovato cent'anni dopo. Deja-vu è uno dei brani migliori del disco, aggressivo e travolgente col suo splendido giro di chitarra. Alexander The Great è un lungo pezzo epico che narra le avventure di Alessandro Magno. Nel complesso il disco è godibilissimo, e in sottofondo permane il sound della band anche se in una veste più colorata e accessibile. Un altro tassello prestigioso, in ogni caso, al loro invidiabile pedigree.