PARANOID (BLACK SABBATH, 1970)

IL CAPOLAVORO DEI SABBATH. Paranoid è il secondo album dei Black Sabbath, gruppo di Birmingham formatosi sul finire degli anni ’60 e esordiente pochi mesi prima con un album omonimo a dir poco sconvolgente per qualità e innovazione. Accostati a Led Zeppelin e Deep Purple, i Sabbath possono in effetti essere compresi più facilmente nella corrente hard rock di inizio anni ’70 che portava alle estreme conseguenze l’evoluzione sonora intrapresa dai Cream e Jimi Hendrix: il blues che si appesantiva e accelerava sempre più, divenendo hard rock, proiettato verso la trasfigurazione dell’heavy metal e verso le sue successive ramificazioni. Heavy metal che in effetti in Paranoid trova i suoi germogli (Iron Man su tutte), ma che in ogni caso verrà anticipato maggiormente da Iommi negli album successivi. La musica dei Black Sabbath è pesante e opprimente, quasi sempre strascicata su un canovaccio decadente e cadenzato che verrà successivamente canonizzato come 'doom metal'. La potenza massiccia dei riffs e la corposità della sezione ritmica pongono le basi del tipico 'wall of sound' che la band aveva ricercato e trovato già nel suo disco d'esordio, e che in 'Paranoid' si evolve e matura verso sfumature a tratti più dinamiche e a tratti ancor più dure. Come i Led Zeppelin, o i Doors, i Black Sabbath godono dell’attributo di amanti dell’occulto e della magia nera -riferimenti a Lucifero già presenti nel primo album si ripeteranno spesso nella loro carriera-, caratteristiche che non mancano in questo Paranoid ma che vengono messe inaspettatamente in secondo piano dalla carica di protesta in quegli anni presente in America e in generale in tutto l’Occidente. Fondamentale comunque resta l’attitudine al macabro e alle tenebre che si rispecchia in ogni canzone, suono, nota. Per rigor di cronaca ricordiamo che a precedere i Black Sabbath in questo sound “hard rock oscuro” ci furono un paio d’anni prima i Vangelis e i Black Widow, ma onestamente raggiungendo livelli decisamente più bassi. Che poi alla fine quello che conta è la musica. E la musica è War Pigs: otto minuti epici composti da riff e assoli superiori alla norma, a dominare la scena il carisma di Ozzy Osbourne e la chitarra di Tony Iommi, senza dimenticare un basso e una drumming per nulla scontati. War Pigs è una canzone politica, di protesta contro la guerra in Vietnam: aldilà di un testo sorprendente che definire ironico sarebbe un eufemismo (“Generals gathered in their masses Just like witches at black masses; Politicians hide themselves away They only started the war”) riuscitissimo è l’effetto di iniziare il brano con una sirena per creare l’effetto della chiamata alle armi e il pericolo imminente di una crisi. Paranoid, probabilmente il brano più celebre del gruppo, gode di un riff immortale (al pari della Smoke on the Water dei Deep Purple) e di fatto risulta il pezzo più atipico dell’album, con il suo ritmo accelerato ed il suo testo che parla di pazzia e crisi esistenziale (“People think I'm insane because I am frowning all the time All day long I think of things but nothing seems to satisfy”). Planet Caravan offre un’avventura in una soffice psichedelia cosmico-spaziale (alla maniera dei primi Pink Floyd e degli Ash Ra Temple) straniando l’ascoltatore con una voce profonda e filtrata che sembra provenire da epoche e luoghi remoti. Iron Man è un altro capolavoro. Inizio alienante da antologia: voluminosi singoli battiti a creare l’effetto dei pesanti passi di questo “uomo d’acciaio” che si presenta con una voce robotica accompagnata da una chitarra immersa in una distorsione lancinante, a far trionfare un feedback malato e misterioso: ennesima grande prova di Iommi con un altro riff impetuoso ma imponente i il batterista Bill Ward che tenta di rubargli la scena con una prestazione titanica. Ascoltando Electric Funeral sembra di sentirla parlare questa chitarra sinuosa e ammaliante. Narrando di un’apocalisse guidata dal diavolo il brano sembra rientrare in quel filone di brani cosiddetti “satanisti” che ha portato preti e benpensanti a strepitare contro la “musica infernale”. In realtà i contenuti più “pericolosi” del disco non sono di tipo profano-religioso ma continuano a essere spietati atti d’accusa politico-morali: “Turn to something new, now it's killing you First it was the bomb, Vietnam napalm; Oh you, you know you must be blind To do something like this” questo canta Ozzy in Hand Of Doom: un presente fatto di orrori in cui non si riesce a credere. Un presente da cui si vuole evadere a tutti i costi, anche baciando la Morte infilandosi un ago nel braccio. I sette minuti del brano diventano allora un tremendo epicedio della generazione eroinomane che è profondamente estranea a quella hippie di San Francisco. I continui cambi di ritmo del brano risaltano i differenti stati d’umore di chi galleggia tra euforia e desolazione e che trova la triste fine in poche note cupe del basso di Butler. Il breve strumentale Rat Salad è l’occasione offerta al batterista di mettersi ulteriormente in mostra con una prestazione degna del miglior John Bonham (Led Zeppelin). A chiudere, Fairies Wear Boots- JackThe Stripper che sfrutta ancora una volta un testo geniale in cui si ritrovano tematiche sia politiche che sociali: sociali per il riferimento abbastanza netto alle droghe allucinogene, politiche perchè le fate in questione che portano stivali sono un riferimento ai naziskin che più volte aggredirono quei capelloni satanisti dei Black Sabbath. Forse, il miglior disco dei Black Sabbath e una delle massime vette del rock degli anni '70.