MASTER OF REALITY (BLACK SABBATH, 1971)

SINTESI DI SUPERCLASSICI. Dopo due lavori seminali quali "Black Sabbath" e "Paranoid", che sconvolsero tutti i canoni musicali dei primissimi Seventies, i Black Sabbath si riaffacciano per la terza volta sui mercati musicali con un loro prodotto, "Master of Reality". Questo album, etichettato dalla Warner Bros, non fa altro che proseguire sui binari che erano stati buttati solo l'anno prima dal diabolico quartetto composto da Iommi, Ozzy, Butler e Ward, e rappresenta una sorta di ottima sintesi tra i due lavori sovraccitati. Infatti Master of Reality è cupo come Black Sabbath, pur avendo degli elementi e delle atmosfere dinamiche a tratti singolari, nello stile di Paranoid. Questo mix di brio e cupezza è davvero amalgamato a regola d'arte, e viene accentuato ulteriormente dalle singole prove dei musicisti, qui davvero in forma smagliante. Tecnicamente lo strumento che domina come forse mai è la chitarra, che spazia la sua prestazione da riff quadrati e rocciosi a delicati e melodiosi arpeggi. La guitar è seguita a ruota da Ozzy, decisamente su di giri con la sua voce, quantomai riconoscibile, ma questa volta sempre perfettamente integrata. Un buon Ward e Geezer Butler a fare grandi rifiniture bassistiche condiscono un album purtroppo non molto lungo (nemmeno 40 minuti), ma estremamente pieno e gustoso da ascoltare. Il platter viene aperto da degli starnuti estremamente distorti che lasciano presto spazio a un riff di quelli che hanno reso celebre il signor Iommi, nella fattispecie il riff di "Sweet Leaf". La song è appunto un incessante dominare della Rhythm guitar, sulla quale Ozzy intona con discreta ispirazione. Tutto il mid tempo (che va però aumentando in velocità col passare dei minuti, e con una spettacolare parte centrale affidata a chitarra e batteria) ha una sonorità leggermente di distorta, e ha come maggior pregio il lavoro sullo sfondo di Geezer Butler, che non sempre si sente, ma che quando udibile (nelle parti prettamente strumentali) raddoppia il pathos messo in gioco. I 5 minuti di Sweet Leaf lasciano dunque subito un'ottima impressione, ma sono solo l'antipasto per la song che segue, probabilmente una delle più famose partorite nella ultratrentennale carriera del Sabba Nero. Dotata di un ottimo inizio in Fade In, "After Forever" parte in maniera estremamente dinamica, con uno stile che quasi non sembra quello dei Sabbath, ma ben presto si torna alla normalità e Tony ci regala un altro riff da antologia. Il resto è un susseguirsi ed alternarsi tra questi giri di chitarra, che cambiano ulteriormente nella parte centrale, e le parti dinamiche che caratterizzavano l'inizio. Ozzy canta meglio qui che nel pezzo precedente, e contribuisce ad abbellire una song che già strumentalmente è geniale (ancora ottimo e decisivo Geezer nello svariare sullo sfondo). A seguito di due canzoni di classe purissima, fa seguito un'introduzione di 30 secondi, chiamata "Embryo", che crea una perfetta situazione di pacatezza ma anche attesa verso quella che verrà. Se infatti dissi poco sopra che After Forever era una delle migliori e famose canzoni dei Sabbath, questa è sicuramente sua degnissima compagna. Veniamo introdotti da un grande approccio di batteria e basso, per poi far scatenare lo spaventoso riff, ormai rimasto nella storia del genere, di "Children of the Grave". Il ritmo è tutto sommato pacato nelle velocità ma estremamente trascinante nella sostanza, e tutti e 4 i musicisti interpretano al meglio la loro parte, con lode per la batteria (darla alla chitarra è fin troppo scontato). Grandioso il cambio di tempo e tematica verso il secondo minuto e mezzo di canzone, che fa calare per un attimo un'atmosfera davvero funebre sull'ascoltatore, tornando poi sui sicurissimi binari principali. L'assolo è impressionante e per composizione e per esecuzione, e fa da preludio ad un'ennesimo cambio di atmosfera, dove si arresta il suonato e, in uno scenario lugubre, una voce sussurrata dice : "Children of the Grave…." Finita questa meraviglia fortunatamente non si rimane delusi, perché nella sua totale differenza, anche "Orchid" risulta essere meravigliosa. Questo stupendo arpeggio, che ci conduce veramente in un'altra dimensione, fa anch'esso, come Embryo, da intro ad una song ("Lord of this World"); c'è però da dire che questo è uno di quei rari casi ove l'introduzione alla traccia supera in bellezza la traccia stessa. Non che Lord of this World sia un pezzo minore, anzi: anche lei è davvero quadrata, un mid tempo concentrato di potenza e durezza ne più ne meno che i lavori precedenti, con un Madman che si cala perfettamente nel suo ruolo. A seguito di questa ennesima, sopraffina accoppiata, veniamo accolti dal brano più lungo in assoluto dell'album, 8 minuti e 8 che rispondono al nome di "Solitude". E anche qui i 4 britannici che si fregiano di aver inventato il Metallo Pesante riescono a stupire, con un pezzo lento e malinconico come ce ne sono pochi. Si riesce davvero a percepire, oltre ad un'atmosfera di un tempo che fu e che mai più sarà, una sensazione di solitudine quasi palpabile, che rende veramente pieno giudizio al titolo. Quindi tanto di cappello ai Black Sabbath. La song viene seguita dalla breve "Into the Void", che ricalca la falsariga dei pezzi Sabbathiani di Ozzy, ma che è infarcita da maggiore esplosività: il che fa sempre bene ed aiuta a chiudere l'album come era iniziato, ovvero sotto attese altissime pienamente rispettate e, volendo, anche superate.