SEASON IN THE ABYSS (SLAYER, 1990)

TRA MELODIA E BRUTALITA'. Due anni erano intercorsi tra “Reign In Blood” e “South Of Heaven”, e lo stesso lasso temporale è sufficiente agli Slayer per sfornare un nuovo disco che, con i 2 precedenti, forma quello che è universalmente considerato il trittico d’oro della loro discografia. Era parecchia la curiosità di scoprire quale strada avrebbe intrapreso la band: dopo la violenza e l’assalto di “Reign In Blood”, dopo la malignità ed i mid-tempo di “South Of Heaven”, cosa ci si poteva ancora aspettare dai californiani? Un ritorno alla velocità estrema, per accontentare tutti quelli (e furono tanti) che massacrarono la band per aver rallentato troppo e per essersi snaturata con l’ultima uscita? Oppure una prosecuzione sulla linea della minor violenza, a favore delle atmosfere sulfuree di cui era permeato “South Of Heaven”? La risposta venne data dagli Slayer nell’autunno del 1990, quando comparve nei negozi “Seasons In The Abyss”. Non c’è neanche il tempo di farsi mezza domanda, perché un istante dopo aver pigiato Play gli altoparlanti iniziano a riversare sull’ascoltatore uno dei brani più assassini che mi sia mai capitato di ascoltare, nonché uno degli assoluti picchi della carriera del gruppo: stiamo parlando di ‘War Ensemble’, brano capace di dimostrare al mondo intero che, se vogliono, gli Slayer possono far male come nessun altro, e che i tempi di ‘Angel Of Death’ non sono per niente lontani. Tuttavia, se è vero che questa opener (a proposito, ma avete notato che questi dannati, fino a questo punto della loro carriera, non avevano mai fallito un’opener? Fortunatamente il trend sembra essere ritornato quello di un tempo con gli ultimi 2 dischi) risulti essere un brano tranquillamente collocabile, dal punto di vista stilistico, all’interno di “Reign In Blood”, non bisogna pensare che la band sia tornata sui suoi passi: la prova principale di ciò è proprio la varietà dei brani proposti e la loro velocità. A parte la già citata ‘War Ensemble’, i brani realmente tirati sono ‘Hallowed Point’, di stampo chiaramente hardcore, e ‘Born Of Fire’, mentre per il resto ci troviamo di fronte a brani dalle ritmiche che si collocano tra i mid e gli up-tempo, con le dovute eccezioni, rappresentate nella fattispecie dalla maligna ‘Dead Skin Mask’ e dalla marziale ‘Skeletons Of Society’. Insomma, proprio volendo mettere quest’album a paragone coi precedenti, si potrebbe dire che ne rappresenta un possibile incrocio, leggermente spostato verso “South Of Heaven” e con un maggior grado di maturità, cosa che permette agli Slayer di comporre brani convincenti a prescindere dal fatto che siano bordate piuttosto che pezzi cadenzati (in tal senso, come dimenticare ‘Expendable Youth’?), con la sola macchia di una titletrack che fatica a convincere a causa di un ritornello aberrante nel suo voler essere melodico. Ancora una volta, quindi, gli Slayer fanno centro, tirando fuori dal cilindro un disco ispirato al cui interno sono contenuti brani che sono tuttora considerati capisaldi assoluti della band, e che vengono sistematicamente riproposti in sede live da 16 anni a questa parte. E, per la terza volta consecutiva, regalano alla storia del thrash un assoluto capolavoro. Benzoworld.com